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lunedì 23 aprile 2012

La libertà della fatica e la fatica del rematore

...Continua da 22/04/2012

E' sempre con un senso di amaro in bocca che si rievocano certi eventi che hanno lasciato dei vuoti incolmabili nelle persone che, loro malgrado, li hanno vissuti, ed io, che li ho rievocati e che l'ho fatto scrivendo, e non, come talvolta è capitato, a parole, nello scrivere questi nomi ho sentito quasi di aver infranto una barriera e di essere entrato in un territorio molto particolare, nel quale si sente di doversi muovere piano e con rispetto per non turbare i sentimenti di queste stesse persone. Per questo non voglio rievocare questi eventi senza esprimere la mia solidarietà ai congiunti del Commissario Luigi Calabresi, alla moglie Gemma Capra, ai figli, tra cui Mario che tanto si è prodigato per la riabilitazione dell'immagine di suo padre, e alla Polizia di Stato che la figura del commissario Calabresi immediatamente richiama  alla mente ancora oggi e richiamerà in futuro, una forza di Polizia che è quotidianamente impegnata in prima linea, e rischia le vite dei propri uomini e donne, nella lotta alla criminalità per garantire ai cittadini italiani una vita nei più alti standard di sicurezza. Ma mi sento solidale anche con i congiunti di Giuseppe Pinelli, vittima innocente, dalla cui scomparsa tutto scaturì.

Si dice che le sentenze non dovrebbero essere commentate ma soltanto accettate. Io crede che sia un atteggiamento prudente quello di non commentare le sentenze, è vero. Ma dico anche che , se si dovesse stabilire una scala di importanza, prima ancora della questione del commento delle sentenze, deve essere posto il problema del rispetto delle sentenze. Cioè, prima di tutto rispettarle, quindi  non commentarle.
E di quella sentenza che ha rigurdato Sofri tutto si può dire tranne che non sia stata rispettata, e primariamante è stata rispettata proprio da lui.
Intendo dire che c'era un modo per non rispettarla ed era quello di fuggire. Cosa che non è mai passata per la mente di Sofri. Cosa dovrebbe, dunque, impedire a me, che ho osservato il tutto da lontano, di rispettarla. Ma Sofri ha mantenuto una sua opinione, cioè si è sempre dichiarato innocente, e per coerenza con questa posizione non ha mai chiesto la grazia, e si è fatto degli anni di carcere in più per questo. Anch'io ho espresso una opinione personale, senza commentare direttamente la sentenza, ma rievocandola indirettamente presumo.  Non intendo in alcun modo mancare di rispetto alla magistratura, ma credo che un conto sia rispettare una sentenza, che di fatto è stata rispettata, e rispettare quello che, per altro, è stato un travagliato lavoro da parte della magistratura, un'altro conto sia invence un autoconvincimento personale su una determinata vicenda che, per me, è maturato, anche questo non senza tribolazioni, nel corso degli anni, e che nessuna sentenza, ancorchè espiata, ancorchè scontata, potrà intaccare.
In generale, quanto al commento, penso che, quando questo avviene nell'immediato o poco dopo l'emissione di una sentenza, potrà sembrare imprudenta ma coraggioso, quando avviene a fine pena forse soltanto stupido o vigliacco, e probabilmente più stupido che vigliacco, perchè la vicenda appunto è conclusa, e tanto varrebbe sorvolare, qualcuno potrebbe dire. 
Quindi le prime critiche alle quali uno pensa di andare incontro sono: Perchè non l'hai dette prima queste cose? ed anche: Perchè dirle adesso?
In realtà alcune di queste cose, a essere sinceri, mi è capitato di averle dette in qualche discorso tra amici e conoscenti, in una platea ristretta di persone. Semmai non le ho scritte. Se le scrivo oggi è perchè ho un blog che mi consente di farlo, allora non l'avevo. Oltretutto avrei avuto l'impressione di voler comunicare qualcosa che, secondo l'opinione che me ne ero fatta, era già depositato nella mente di chi, con maggior prontezza di me pensavo avesse colto gli spunti necessari per giungere ad una  considerazione analoga a quella a cui ero giunto io.  Oppure pessimisticamente pensavo che fosse irrilevante, non pertinente o semplicemente superfluo. Il fatto è che veramente queste tribolazioni sono state vissute da me come un fatto essenzialmente personale, avevo un conto aperto con me stesso e dovevo chiuderlo, e l'ho chiuso positivamente per me, con una impressione personale, che non è cambiata nel corso del tempo.
Perchè farlo adesso? Non è che esiste una sola ragione per cui si prendono certe iniziative anzi, spesso e volentieri di ragioni    ne esistono più d'una. Eccone alcune:

Le lezioni di Sofri hanno costituito per me una fonte culturale ricca  di suggestioni e di stimoli importanti, sono parte della mia formazione ed io gli sono riconoscente. Certo non sono la sola fonte culturale che ho avuto nel corso della vita, ma insieme con le altre  ne rappresenta una molto importante, ed io non la rinnego questa fonte e non rinnego nè lui nè il fatto di averlo avuto come professore, per la sola ragione che è andato incontro ad anni di carcere.
E se qualcuno trovandosi a passare di qua, nel leggere queste righe, cogliesse qualche spunto di riflessione da aggiungere alle proprie idee o convinzioni personali sulla vicenda, allora queste righe non sono state scritte invano.

Un'altra ragione è che credo  non sia destituito di fondamento da parte di un operatore artistico fornire anche   elementi autobiografici, anche quando si legano ad elementi biografici. A tale proposito ricorderò che questo incontro avvenne all'Accademia di Belle Arti di Firenze e che queste lezioni erano parte integrante della proposta formativa della stessa Accademia.

E poi, perchè il provvedimento di fine pena è stato firmato di recente, ed è appunto adesso che uno può, se sente di volerlo fare, esprimere le proprie felicitazioni ed esprimere il proprio:
ben tornato tra i cittadini liberi prof!

Libertowngradurbeburg
Tecnica mista su carta
2011

domenica 22 aprile 2012

La libertà della fatica e la fatica del rematore

...Riprende da 21/04/2012

Quello che accadde, aveva come veicolo il mezzo di comunicazione di massa per eccellenza, la televisione.
Precisamente mi riferisco ad una celebre  trasmissione televisiva, il Maurizio Costanzo Show.
Non ricordo esattamente la data, ricordo soltanto che vi era ospite proprio Adriano Sofri e che si trovava in compagnia di Paolo Liguori. Naturalmente il tutto verteva, e non poteva essere altrimenti, sulla sua vicenda giudiziaria. Mai prima di allora lo avevo sentito parlare delle sue vicende personali,  poichè era assolutamente impossibile che lo facesse a lezione, non era mai accaduto, ed io di lezioni non ne avevo persa praticamente nessuna. Di tutto quello che Sofri disse durante la trasmissione una cosa mi colpì più delle altre, e cioè quando dichiarò che non avrebbe mai mandato qualcuno ad uccidere perchè semmai avesse ritenuto che qualcuno avesse dovuto subire una simile sorte, lo avrebbe fatto personalmente, non avrebbe mai mandato qualcun' altro a farlo al suo posto! Si potrebbe dire che non c'è da stupirsi del fatto che una persona che cerca di difendersi pronunci una frase del genere. Eppure, forse, la frase andava letta in un altro modo. Poi vedremo. Intanto fu abbastanza scioccante sentirgli dire quella frase. Io, da parte mia, ne presi atto e  riposi queste informazioni in alcuni di quei cassetti che in genere andavo sovente a riaprire nella speranza di qualche illuminazione. Ma questa volta, per una sorta di lapsus freudiano, il cassetto dovette rimanere chiuso ancora per qualche tempo. Attribuisco questo lapsus all'incapacità di accettare quell' immagine del professor Sofri così come quelle parole, da lui stesso pronunciate, la stavano dipingendo. E' vero, lui parlava a livello ipotetico, e, in buona sostanza aveva dichiarato che non avrebbe potuto essere che il mandante di se stesso, ma io mi dipingevo lui con la pistola in mano e non riuscivo a concentrarmi su altro. In ogni caso il cassetto rimase chiuso. Ma anche in questi casi ci sono delle brecce che volenti o nolenti lasciano filtrare le informazioni depositate in questi cassetti, anche inconsciamente e che una volta uscite da questi stessi cassetti possono raggiungere di nuovo la coscienza. Rovista oggi, rovista domani, tra ciò che filtrava, quella frase riapparse lentamente e fece scattare qualcosa nella mia testa:
Al di là del più immediato dei significati, questa frase significò per me, che coloro che condividevano col Sofri di allora, col Sofri di Lotta Continua, uno stesso umus culturale e uno stesso codice comportamentale, dovevano condividere con lui anche questa idea! Questa frase significava dunque, non soltanto che Sofri avrebbe agito in prima persona piuttosto che mandare altri, ma che ognuno dei partecipanti al commando che purtroppo uccise il Commissario Luigi Calabresi, la pensava nello stesso modo. Ognuno dei partecipanti avrebbe potuto pronunciare quella frase e quindi dichiarare così di essere sostanzialmente il mandante di se stesso. Così come Sofri non avrebbe potuto essere che il mandante di se stesso, così anche loro non avrebbero potuto essere che i mandanti di se stessi. Non avevano bisogno di essere mandati da qualcuno, e non sono andati là, perchè qualcuno ce li ha mandati. E se è vero che ognuno di loro è stato il mandante di se stesso allora non sussiste più la tesi del mandante 'esterno', per così dire! Deve essere stato per un mero fatto di stile o per aderenza a un codice comportamentale che Sofri, nella stessa trasmissione, non si sia spinto a trarre le conseguenze da questa premessa, tuttavia una chiave interpretativa era fornita. Oppure la chiave interpretativa neppure esisteva e la frase, era stata detta in modo del tutto naturale e sono io che, successivamente ne ho tratto delle conclusioni personali. Non lo so. In ogni caso, se qualcuno avesse dovuto cogliere più rapidamente di me queste impressioni, mi pare di capire che ciò non avvenne.
Oppure avvenne, magari in sordina, ma non ebbe un seguito; oppure lo ebbe addirittura ma solo per un po'. Sia come sia, è da allora che fece breccia nel mio animo la forte sensazione della sua innocenza, da quando cioè, il ripescaggio di quella frase, che in un primo momento avevo quasi freudianamente rimosso, nutrita da chissà quali altre immagini, pensieri e ricordi, agendo in parte sotterraneamnte, in parte alla luce del giorno, mi aveva fatto scattare queste considerazioni.
Ho letto da qualche parte, e mi scuso se non so citare la fonte, che, in una intervista al Corriere della Sera, pur ribadendo la sua innocenza, Adriano Sofri si  sarebbe assunto la corresponsabilità morale del triste evento. Si può pensare che sia per questo che abbia pagato, per la corresponsabilità morale e a buon diritto si può pensare che lo abbia fatto fino in fondo, pienamente, senza fuggire ne a se stesso ne agli altri. Comunque la si pensi, se a fine pena il detenuto ha pagato per il suoi errori, se il regime di carcerazione deve servire alla riabilitazione di chi vi è detenuto, allora penso che con Adriano Sofri questo sia avvenuto pienamente e che egli esca da questo regime pienamente riabilitato. Ci sono persone per le quali sussiste la possibilità di ricavare spazi di libertà anche in regime di carcerazione. Son quelle persone che lottano con gli strumenti legittimi che il regime di carcerazione stesso non può negare loro, in quanto effettivamente legittimi e legali:  le parole, dette o scritte che siano, per esempio. Le parole, i pensieri, detti o scritti con la fatica di chi si alza detenuto e sa che dovrà esserlo ancora per molto, ma non per questo rinuncia a lottare una lotta spesso impari, conquistando spazi di luce, perchè c'è una fatica che produce luce e una luce che è libertà. E v'è chi ha detto e insegnato che 'la fatica del rematore illumina la galera'. Credo che Adriano Sofri appartenga a questo genere di persone, credo che sia, se mi si può passare questa immagine, un rematore, un rematore che nello sforzo del remare produce questa luce particolare che è luce di libertà. Uno sforzo che è una lotta e una lotta che, talvolta può apparire così prolungata da sembrare di non conoscere soluzione di continuità. Il che può rimandare enigmaticamente, al nome del movimento extraparlamentare di cui Sofri è stato leeder in passato, cioè Lotta Continua, che nella fattispece vorrei invitare a leggere in modo edulcorato dai significati politici, come, tra l'altro deve essere letto tutto il testo dall'inizio alla fine, per coglierne il significato puramente letterale.

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sabato 21 aprile 2012

La libertà della fatica e la fatica del rematore

...Riprende da 20/04/2012

E' così che misi piede nell'aula del 'cenacolo' per assistere alla prima lezione del corso speciale di Teoria e Metodo dei Mass-Media, senza pregiudizi! Ne fui ripagato!! Anche se non mi dilungherò sui contenuti delle lezioni, che ci porterebbero troppo lontano, devo almeno dire, però, che fu una sorprendente rivelazione. Non mi era mai capitato di assistere prima di allora a lezioni del genere, condotte con maestria da romanziere, dove era possibile rintracciare quasi una trama, un intreccio e tuttavia senza che questo intreccio trasformasse le lezioni nella mera esposizione di un romanzo, cioè di una finzione, anche perchè gli argomenti erano tratti, dalla realtà mediatica, sociale ma anche quotidiana e tendevano evidentemente a fornire strumenti concettuali utili alla decifrazione della realtà. Altre volte, gli argomenti trattati, erano vagliati da strumenti presi a prestito dal mondo della mitologia greca. Ricordo di aver espresso, allora il giudizio secondo il quale Sofri era capace di far assurgere una esperienza quotidiana, anche la più semplice, a dignità di paradigma, di esempio, di termine di paragone di altre realtà anche assai più ampie e complesse, stabilendo una relazione fortemente simbolica o addirituttura metaforica tra i due termini in questione. E siccome queste esperienze erano alla portata di tutti, tutti sentivamo che erano esperienze importanti e non banali, bisognava semplicemente imparare a vederle con un occhio critico diverso e più acuto. Queste lezioni costituirono per me uno dei principali fattori di stimolo all'osservazione della realtà. Non di una realtà grande o roboante che si impone da se, ma della realtà propriamente quotidiana così come essa si presenta  agli occhi dell'osservatore nella sua nuda semplicità.
Ed il mio quotidiano divenne così, anche per questo, più interessante. Difficile pensare di perdersi le lezioni successive. Oggi, che ho un vocabolario diverso, ripensando a quelle lezioni ed alle loro caratteristiche sarei tentato di dire che erano lezioni intrise di 'Empirismo' e del metodo 'sintetico-induttivo' tale che dall'esperienza particolare si giungeva all'universale.
Ma intanto la vicenda giudiziaria, al di fuori, andava avanti, con i suoi strascichi di polemiche, di attacchi, di difese; i giornali riportavano notizie e particolari di ogni genere, su ognuno di questi esistevano posizioni diverse: chi ne sosteneva la veridicità, chi, al contrario ne sosteneva la falsità, e in mezzo a tutto questo la posizione di Sofri, che pure si difendeva a spada tratta in prima linea e in prima persona si faceva incerta. Le trasmissioni televisive facevano la loro parte e, anche quando non si parlava esplicitamente dell'argomento era possibile (così mi parve allora) rintracciare dei messaggi vagamente subliminali che venivano lanciati in difesa o in accusa di Adriano Sofri. Alcune lezioni cominciarono a saltare ma il corso continuò fino alla fine. Anzi, alcune lezioni ebbero modo di espletarsi ancora due anni dopo, ma allora si sporadicamente, fino a finire del tutto. In ogni caso se potevo andare ad assistervi io lo facevo sempre volentieri, benchè avessi già concluso il mio corso! Dunque il corso finì per cause di forza maggiore. Non pensavo che avrei rivisto il professor Sofri e invence, una sera, inaspettatamente, ecco che lo riconobbi tra il pubblico di un concerto di Vim Mertens che si tenne al teatro Puccini di Firenze. Io entrai nella platea in piacevole compagnia e mentre cercavo i nostri posti, sollevai la testa e i nostri sguardi si incrociarono. Ci riconoscemmo e ci salutammo e la cosa a dire il vero finì li, ma fui molto contento di vedere che gli era possibile una vita ancora abbastanza normale, e pensai che forse altre lezioni sarebbero state possibili. Non gli chiesi niente, un po' per pudore, un po' per chissà che cosa, ma sentivo che non era necessario. Fui felice di constatare, invece, che avevamo comuni gusti estetici musicali. Ma a parte questo incontro, vedersi a lezione oramai non era possibile. La vicenda giudiziaria andava avanti. Io non ero nemmeno capace di seguire tutto quello che i giornali riportavano sulla vicenda, ci sarebbe voluta una energia pazzesca; ne sapevo districarmi bene tra le varie testimonianze, alcune delle quali potevano sembrare obiettivamente faziose. In generale, ero dispiaciuto, perchè sentivo che c'era un contrasto stridente tra quella che era l'immagine di Sofri così come la si poteva desumere  dalla realtà vissuta senza pregiudizi e l'immagine di Sofri così come la si poteva ricostruire dai giornali, diciamo così, 'colpevolisti'. La forza mediatica era grande, e col tempo tutto questo caos, volente o nolente, produsse l'effetto di incrinare piano piano quella immagine che, partendo da posizioni non pregiudiziali, ero andato autonomamente costruendomi di Sofri.
Desideravo che fosse innocente, è vero, ma cominciai a temere che non lo fosse!
Cercai di capire, come fare luce sulla questione, come arrivare ad una posizione definitiva e autonoma. Sentivo che desideravo la sua innocenza, si,  ma che, al contempo, non volevo lasciarmi influenzare da questo desiderio. Così come avevo costruito una immagine non pregiudiziale del professor Sofri, così, parimenti, volevo che questa immagine, a sua volta, non condizionasse la mia presa di coscienza sulla realtà che stava emergendo. In altri termini, cercavo l'obiettività, e nello stesso tempo cercavo di sfuggire dalle facili etichettature. E' normale sentirsi istintivamente portati a chiarire a se stessi l'immagine che si ha di una determinata persona, soprattutto quando questa persona la si incontra regolarmente, quando questa persona entra a fare parte, in qualche modo, della tua vita.
Purtroppo, però,  di risposte a queste tribolazioni non ne arrivarono nell'immediato, ne per molto tempo ancora; fino a che non accadde qualcosa, qualcosa che, anche se non ebbe un immediato effetto, depositò nella mia memoria un dato che sarebbe divenuto essenziale per la mia personale ricerca di una posizione autonoma e personale della vicenda.

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venerdì 20 aprile 2012

La libertà della fatica e la fatica del rematore

Il 16 gennaio  2012  l'ufficio  di  sorveglianza  di  Firenze  ha  firmato  il  provvedimento  di  fine  pena  per Adriano Sofri.
Ero da poco studente all' Accademia di Belle Arti di Firenze,  quando appresi che il professore del corso speciale di Teoria e Metodo dei Mass-Media, sarebbe stato Adriano Sofri.
Cercai di racimolare quelle poche e confuse immagini che quel nome mi evocava ma in un primo istante non arrivai a nulla che non fosse ancora troppo evanescente, ancora troppo confuso. A soccorrermi però, fu il fatto che, proprio in quel periodo, di Sofri si stavano occupando in modo massiccio le televisioni e i giornali di tutt'Italia, perchè si era tornati a fare luce su una triste vicenda del passato, su un fatto di cronaca di molti anni prima, avvenuto nel 1972, che sembrava avere, appunto, delle implicazioni con Sofri. Questo fatto ebbe allora, e continuò ad avere per molto tempo ancora, una vasta eco nella nostra nazione. Si trattava del caso che prese il nome dal commissario di polizia che purtroppo vi perse la vita: Luigi Calabresi. A sua volta il nome del commissario Calabresi era associato a quello di Giuseppe Pinelli, e quindi, inevitabilmente anche alla  scomparsa di quest'ultimo. Sia chiaro fin dall'inizio, e a scanso di equivoci, che io ritengo il commissario Calabresi innocente delle accuse che gli furono mosse circa la scomparsa di Giuseppe Pinelli, e che lo ritengo una vittima della situazione. Ma qui apro una parentesi per dire che sento il bisogno di circoscrivere il raggio dei miei discorsi, che altrimenti mi porterebbero verso strade troppo lontane, strade che altri più legittimamente e con maggior pertinenza di me potrebbero percorrere. Questi fatti sono piuttosto lontani dalla mia vita personale, dalla mia esperienza vissuta, perchè quella che offro alla lettura è essenzialmente la storia di una tribolazione interiore molto personale e soggettiva, direi autobiografica, per arrivare ad una  personale lettura di vicende che, ancorchè legate al passato, per me, tuttavia partivano da lì, dal ritorno in prima pagina di questi eventi, dall'incontro con Sofri. Chiusa parentesi.
Il nome di Sofri era, allora, associato al caso Calabresi appunto, al nome di questo stimato commissario, ed alla vicenda giudiziaria che da allora ne scaturì. Così, intanto, collegai i dati essenziali e alcuni ricordi, come quelli di alcuni telegiornali di fine agosto, e potei prendere atto della cosa. Quando ebbi assimilato meglio il tutto, pochi giorni dopo, cominciai a chiedermi con quale stato d'animo avessi dovuto affrontare le lezioni. La mia condanna del terrorismo era ferma, così come era ferma la condanna di ogni violenza. Lo ripeto nel caso in cui non fosse abbastanza chiaro: la mia condanna del terrorismo era ferma e decisa così come ferma e decisa era la mia condanna di ogni violenza. Ma gli stati d'animo sgorgano spontanei e spesso in modo imprevedibile senza chiedere troppo il permesso alla ragione e senza troppo ascoltarla. Ciò nonostante sentivo  il bisogno di dare a me stesso una risposta che fosse efficace di una qualche presa sulla realtà che stavo vivendo, e che fosse quindi in qualche modo pragmatica e utile; quindi mi dissi che dovevo essere e comportarmi come un garantista; in mancanza di una sentenza definitiva, o definitiva personale opinione sulla vicenda, dovevo rimanere in uno stato di sospensione del giudizio, occuparmi e giudicare solo e soltanto le questioni strettamente inerenti le lezioni, come in un qualsiasi altro rapporto professore-studente.  La 'sospensione del giudizio' era già apparsa, in passato, a filosofi di tutto rispetto, come per esempio Cartesio ( René Descartes),  probabilmente mediandola dallo scetticismo di Pirrone di Elide, una condizione utile se non essenziale ad una visione obiettiva e scientifica della realtà, ed io avevo nelle mie passate esperienze già avuto modo di sperimentare istintivamente la bontà di questa tecnica, con mio grande beneficio, benchè, beninteso, applicandola a realtà ed esperienze personali più modeste e non così complesse e prorompenti, come in questo caso. Il mio atteggiamento era, in qualche modo, nobilitato dalla storia della filosofia, il che non era male.

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lunedì 2 aprile 2012

Un tema da riprendere ed approfondire

Nel libro Gli animali simbolici dell' etno-musicologo alsaziano Marius Schneider nell'introduzione si può leggere qualcosa che pare contrastare alquanto con alcuni valori della nostra cultura di base, e con le nostre più ferme convinzioni, e se ne può rimanere interdetti.
Si può leggere infatti di come alcuni antichi racconti africani narrino la superiorità morale dell'animale sull'uomo!
Come può essere che l'animale sia moralmente superiore all'uomo?
C'è di che scandalizzarsi, è vero!!
Ora, ci si può fermare qui, chiudere il libro e non volerne sapere di andare avanti con la lettura,  anche dal momento che, dopo tutto, ci si riferisce a racconti che non fanno parte della nostra cultura, ma di quella africana appunto, e che quindi chiudendo il libro tutto sommato non facciamo altro che ribadire un concetto che, anche se ha visto alternare la propria fortuna nel corso del secolo scorso, pare essere ancora abbastanza radicato: la nostra lontananza da questa cultura, la nostra lontananza dall'Africa.
Ma chi decidesse di andare avanti nella lettura, entrerebbe in un mondo affascinante e con estrema probabilità sraebbe tentato di sospendere il giudizio e rimandarlo per lo meno ancora di qualche pagina.
Naturalmente il libro in questione estende il proprio campo d'azione ed il proprio raggio geografico e culturale e anche storico, diviene complesso, a volte difficile da seguire, ma rimane sempre e comunque denso di grande significato e cultura. Ma non è di questo libro che volevo parlare in realtà. Il libro è un pretesto per rincarare provocatoriamente la dose sul punto sottolineato di sopra e porre una questione: se ci si scandalizza del fatto che qualcuno ritiene l'animale moralmente superiore all'uomo, quanto più dovremmo scandalizzarci se qualcuno adducesse che i robot, cioè delle macchine (e in quanto macchine senza vita) sono, o potrebbero essere, essi stessi moralmente superiori  all'uomo?!
Sarebbe clamoroso, scandaloso!
Naturalmente anch'io, come voi,  penso che l'uomo sia moralmente superiore e agli uni e agli altri, ma se questo mi facessere chiudere così semplicisticamente la questione non ne ricaveri un granchè. Ecco perchè merita lasciare aperta la questione e rifletterci sopra.
Ed ecco, quindi, un tema da riprendere ed approfondire...




Uomini, animali, robot
Tecnica mista su carta
2011