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mercoledì 13 settembre 2017

Mimesis nella choréia e nel mondo preistorico 3

Tornando alla Grecia antica


In definitiva, tornando alla Grecia arcaica, la choréia, sebbene ad un livello culturale più alto, manifesta degli evidenti tratti in comune con quegli aspetti del mondo preistorico, tanto che possiamo affermare che ne rappresenti in un certo senso il continuum specifico, l’evoluzione, particolarmente di certe forme di pensiero, di sentimento e di azione. Uno di questi tratti è rappresentato dal prevalere dell’aspetto per così dire acustico rispetto a quello visivo. Il piano acustico è il piano mistico per eccellenza, il più sottile, quello che abbisogna di un minore apporto materiale per comunicare le informazioni che può veicolare. L’imitazione di un sentimento aveva molto in comune con l’imitazione del ritmo sonoro animale.
Punti di contatto con questa cultura “acustica” si hanno nel mito.
Che dire infatti del mito di Orfeo e dell’Orfismo che da lui deriva?
Con Orfeo si cita un mito appunto, il mito che incarna l’artista per eccellenza, il musico e il cantore supremo, ma anche, si dice, uno “sciamano, capace di incantare animali […]” (Giulio Guidorizzi, Il mito greco, vol. 1, Milano, Mondadori, 2009, p. 77), e sui contatti dello sciamanesimo con l’imitazione avevamo già accennato.
Una prima testimonianza della capacità di Orfeo di incantare gli animali, un po’ come il cacciatore primordiale, l’abbiamo del resto con Simonide (VI-V secolo a.C.) ma egli scrive ciò di cui già si raccontava:

«Sul suo capo volavano anche innumerevoli uccelli e diritti dalla profondità dell'acqua cerulea i pesci guizzavano in alto al suo bel canto. »

(Simonides fr. 40; PLG III p. 408[10])

L’accento posto sul piano acustico, così legato alla creazione e ai prodromi della simbologia e del mito, rappresenta un ciclo culturale che si protrae abbastanza lungamente, molto vicino ai nostri tempi. Si protrae nella cultura greca arcaica fino agli albori del periodo severo e classico in cui qualcosa cambia.
Ad un certo punto nella cultura greca avviene un cambiamento piuttosto significativo, un cambiamento di accento se vogliamo. Un cambiamento non improvviso anzi, abbastanza graduale in effetti ma profondo e significativo.
Nell’ambito di questa cultura greca, vi è un passaggio, il passaggio dell'applicazione del concetto di mimesis dal gruppo delle arti espressive al gruppo costruttivo. Questo rappresenta un passaggio decisivo e cruciale, particolarmente significativo nell'evoluzione culturale della civiltà occidentale, un vero e proprio snodo culturale, un punto di svolta, e sta a rappresentare uno scarto, una frattura assai più decisa col passato primitivo e ancestrale di quanto non fossero state probabilmente le fratture o i passaggi epocali antecedenti e di quanto non lo sarebbero stati quelli successivi.
Forse apparirà arrischiato dirlo ma credo che si possa affermare che la cultura Occidentale di oggi, almeno quella di massa, sia l’erede diretta di questo passaggio.
Esso rappresenta con ogni evidenza un sintomatico snodo culturale, uno spostamento di accento dal piano sonoro a quello visivo, il che può dare luogo a sua volta a tutta una serie di valutazioni consequenziali. Tra queste si affaccia l’idea di una evoluzione in un senso più materiale e formale rispetto a ciò che avveniva prima, una evoluzione materiale, per di più con un ritmo accelerato. Se questo da un lato è da considerarsi in un certo senso un fattore positivo e di grande modernità, dall'altro in un senso più strettamente tradizionale e simbolico non può che rappresentare in un certo senso una volgarizzazione e un distanziamento, un impoverimento dalla verità primigenia “sonora”. Questo contrasto può giustamente apparire paradossale perché tanti sono gli aspetti positivi che da questa trasformazione, da questo passaggio epocale si sono sviluppati. Basti pensare che questo spostamento di accento, come lo abbiamo definito, è alla scaturigine di tutta la statuaria greca classica e poi ellenistica e poi ancora della pittura classica ed ellenistica. Non si potrebbe spiegare altrimenti neanche l’incipit di Aristotele nella sua Metafisica:

“Tutti gli uomini per natura tendono al sapere. Segno ne è l’amore per le sensazioni: infatti essi amano le sensazioni per se stesse, anche indipendentemente dalla loro utilità, e, più di tutte, amano la sensazione della vista: in effetti, non solo ai fini dell'azione, ma anche senza avere alcuna intenzione di agire, noi preferiamo il vedere, in certo senso a tutte le altre sensazioni. E il motivo sta nel fatto che la vista ci fa conoscere più di tutte le altre sensazioni e ci rende manifeste numerose differenze fra le cose.”

(Giovanni Reale, Introduzione, traduzione e commentario della Metafisica di Aristotele, Il pensiero occidentale, Bompiani)

Anche se poco oltre lo stagirita spezza una lancia in favore dell’udito, l’incipit non lascia dubbi: per Aristotele gli uomini più di tutte le altre sensazioni amano quella della vista!
Un simile incipit probabilmente non sarebbe stato possibile finché era in auge la choréia, almeno finché ad essa continuava ad applicarsi il concetto di mimesis gradualmente trasferitosi poi al gruppo costruttivo, talché da esso ne era scaturito una formidabile generazione di prodotti artistici.
Ciò nondimeno si avverte in questo scarto, in questa frattura l’effettiva perdita di qualcosa, di un qualcosa di prezioso, di un certo modo di 'sentire' dell'uomo, la perdita di un certo contatto con zone profondissime dell'anima, della psyché, nonché la perdita di contatto con lo stesso piano sonoro, che da un punto di vista mistico e tradizionale è sempre stato ritenuto il piano spirituale per eccellenza.
Questo passaggio d'accento rappresenterebbe dunque sia una evoluzione in senso materiale sia una involuzione in senso spirituale. Qualcosa si è  guadagnato, qualcos’altro si è perso. 
Dal dominio dell'udito al dominio della vista avremmo dunque una involuzione in senso spirituale, e una evoluzione in senso materiale?
Forse, e tuttavia, riferendosi in particolare a tutta all'arte greca che da questo passaggio ha preso le mosse, non potremmo fare a meno di dire: certo però, che strana involuzione! Certo però, che vista questi greci!
Wladyslaw Tatarkiewicz scrive nella sua “Storia dell’estetica” che "un celebre architetto del XIX secolo disse che il senso della luce dava ai Greci gioie a noi sconosciute." (W. Tatarkiewicz, Storia dell'estetica, vol I°, l'estetica antica, Piccola Biblioteca Einaudi)
Una nota a piè di pagina, specifica che si tratta di E. E. Viollet-Le-Duc, il noto restauratore di Carcassone, specificando anche che, nel suo Dictionnaire raisonné de l'architecture francaise du XI au XVI siècle [10 voll., Paris 1858-68], ha sostenuto che “i Greci erano capaci di tutto in materia d'arte e grazie al senso della vista erano in grado di provare delle gioie che noi, nella nostra rozzezza, non saremo mai capaci di conoscere“ (ibidem).
Tuttavia noi possiamo definirci, nonostante la rozzezza acquisita col tempo, rozzezza cui allude il Viollet-Le-Duc, gli eredi diretti di questa ‘cultura della vista’. La stessa nozione di Società dell’immagine che si è attribuita alla nostra società degli anni Settanta e Ottanta e forse in certa misura anche Novanta, dovrebbe bastare da sola a confermarlo.
Sembra insomma che ogni evoluzione materiale debba accompagnarsi ad un’involuzione spirituale. Ma forse non è necessariamente così. Talvolta questo, soprattutto a livello individuale è una condizione solo apparente o magari temporanea; talaltra però sembra, particolarmente a livello sociale e collettivo, che ciò avvenga realmente.
Se questo è vero, recuperare certe forme di pensiero e la loro connessione al concetto di verità, sarebbe quindi importante soprattutto in certi frangenti storici particolarmente delicati in cui sembra di poter perdere determinate conquiste politiche e sociali e in cui pare di vedersi drasticamente affievolire la stessa Democrazia. La nozione di verità subisce un ridimensionamento repentino sintomaticamente parallelo a quello della nozione di Democrazia, anche in conseguenza dell’avvento della ‘società dell’immagine’ stessa, in cui predomina l’aspetto esteriore, apoteosi modernissima della svolta “visiva” di un tempo, espressione con la quale, come accennato di sopra, si soleva descrivere la società degli ultimi decenni del XX secolo cioè una società vicinissima alla nostra. L’immagine esteriore può essere una maschera dietro la quale si può nascondere altro e in questo senso tale società è emblematica di un modo d’essere e di agire che sfrutta il mimetismo, il nascondimento ed altre tecniche usate anche dalla politica.
Oggi questo modo di fare sembra avere raggiunto il parossismo poiché amplificato dai mezzi d’informazione dimassa, ed è questa la ragione per cui è necessario usare bene i nostri sensi, per così dire, più fini. Ma se l’uso di questi sensi si è affievolito? Se il legame di essi con la verità si è perduto?


Del resto, è  bene specificare che le facoltà dell’uomo preistorico sfruttavano esse stesse l’imitazione per ingannare la preda. Era un inganno quindi, utile però a qualcosa di essenziale, alla sopravvivenza individuale e del gruppo ed è così che si poteva giustificare l'inganno. Questo anche per dire che il repertorio della politica e gli imbonitori commerciali, sfruttano in un certo senso queste stesse tecniche. Pensiamo soltanto alla tecnica dello specchio! Uno strumento può essere usato a fin di bene o a fin di male, per il bene collettivo o per il bene personale, e quest’ultimo fino agli estremi dell’egoismo. La politica sembra sfruttare il repertorio degli inganni per scopi molto poco nobili, comunque non sovrapponibili a quelli per cui l'antico cacciatore-imitatore usava i suoi. Una dote quindi non basta da sola, serve la convinzione che essa debba essere usata a fini sociali, per il bene comune.


René Guénon nella prima metà dello stesso XX secolo, si interrogava sul senso della nozione di verità e si chiedeva: cosa importa questa nozione, verità, ”in un mondo le cui aspirazioni sono puramente materiali e sentimentali?”


Per adesso ci fermiamo qui. Concluderemo il saggio con la prossima pubblicazione, con il paragrafo intitolato appunto ”Riassumendo e concludendo”.