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lunedì 25 giugno 2012

Le ragioni del lavoro


Il teologo ci insegna che quando Adamo ed Eva furono cacciati dal Paradiso Terrestre, a causa del loro peccato, a causa cioè del 'peccato originale', si  trovarono a vivere in uno stato tale per cui dovettero far fronte necessariamente a tutte le esigenze di sussistenza e a tutti i fabbisogni primari col sudore della propria fronte.
Così ci ha fatto mirabilmente notare, tra l'altro, nel suo  'Libro dell'Arte', Cennino Cennini di Colle Val d'Elsa pittore e scrittore vissuto agli albori e durante il primo Rinascimento, nostro stimato predecessore nella teoria e nelle  pratiche artistiche. Un artista e un teorico delle tecniche e direi anche dell'estetica, e non un teologo quindi. 
Non per questo però, Cennini si esime dal citare l'episodio della cacciata dal Paradiso Terrestre nell'introduzione  al  suo 'Libro', sottolineando concordemente col teologo che  per  questa  ragione Adamo ed Eva dovettero  trovare il modo di sopravvivere con la  forza de proprio lavoro, esattamente col sudore della propria fronte:

' E così egli ( Adamo, nota mia) incominciò con la zappa, ed Eva col filare. '
( dal 'Libro dell'arte' di Cennini ) 

A onor del vero però, questa specificazione del Cennini poteva sembrare abbastanza azzardosa. Nella Genesi non vi è scritto niente di così esplicito sul lavoro dei progenitori. E' vero, ci si riferisce genericamente all'uomo circa il  lavorare la terra dopo la discacciata e ci sono dei passi che precedono la stessa discacciata dove ci sono dei chiari riferimenti al lavoro della terra stesso, ma il filare di Eva? Di questo non c'è traccia.
E' piuttosto con Caino e Abele che si parla apertamente di lavoro. Si afferma infatti che il primo era coltivatore ed il secondo pastore. Ma la disinvoltura con la quale egli ci parla del 'filare di Eva' lascia pensare che fosse una tesi quantomeno diffusa popolarmente e pobabilmente tollerata se non accettata forse dalla stessa Chiesa e che probabilmente derivava da una tradizione orale popolare non scritturale.
In ogni caso la condizione di particolare felicità  che  era possibile vivere nel giardino dell'Eden, era perduta. 
Persa, per la punizione susseguente alla trasgressione, la condizione edenica, proseguirebbe il teologo, non per questo Adamo ed Eva cessarono  di essere amati da Dio, il quale pur avendo punito, nondimeno si accinse immantinente ad operare un processo salvifico, il quale processo è tuttora in corso.

Anche noi, di conseguenza, abbiamo ereditato questo stato di cose: la perdita di uno stato (quello edenico) altamente desiderabile da un lato, e la nostra inclusione in un progetto salvifico, dall'altro. 
In altri termini siamo figli dello stesso stato post-edenico, siamo anche noi fuori dal Paradiso Terrestre, prorio come Adamo ed Eva, e  proprio  per  questo, ci adoperiamo variamente  secondo le  proprie inclinazioni  e  opportunità a lavorare per la propria sopravvivenza, il che ci consente anche di collaborare al progetto salvifico stesso.
Eppure di strada ne ha dovuta percorrere l'essere umano per lavorare secondo le proprie inclinazioni e propensioni. Lavorare secondo le proprie inclinazioni non è stato, come apparirà subito ovvio, così immediato o scontato; appare ancora oggi, anzi, come un lusso. Basti pensare che dobbiamo aspettare Platone perchè il concetto di inclinazione o propensione , si esplici. Egli infatti sosteneva che se una persona manifestava una certa propensione, l'educazione avrebbe dovuto porsi come finalità quella di garantire e permettere una adeguata preparazione a quello stesso libero cittadino tale da consentirgli di espletarla.
Tuttavia anche allora in Grecia l'educazione non era riservata a tutti, era impartita soltanto agli uomini liberi. 
Ne erano esclusi gli schiavi, gli stranieri, le donne ecc. Quindi anche questo concetto, per quanto fosse importante la sua esplicitazione, non avrebbe potuto trovare neanche allora una applicazione universale. 
A questo punto mi sembra importante fare notare l'importanza universale che invece assume questo stesso concetto nell'Art.4 della Costituzione Italiana da me già parzialmente riportato sotto al titolo del blog e che oggi cito integralmente:

"La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto."

Ma la parte che a noi interessa particolarmente ai fini del nostro discorso è:

"Ogni cittadino ha il dovere di svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, un'attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società."

Nel concetto di Platone Il valore del termine 'permettere' ci spinge a credere che egli presenti la questione sotto un punto di vista di ' auspicabilità ', la Costituzione parla invece di 'dovere'. 
C'è la sua differenza, ma non approfondiremo la questione in questa sede.
Per adesso ci fermiamo qui, ma con il prossimo post torneremo invece al punto di partenza per parlare di nuovo del lavoro delle origini e della possibilità di scelta.

Prosegue...

La caverna del lavoratore scultore
Tecnica mista su carta
2011